C’è qualcosa che crea paura più della consapevolezza – per un adolescente – di dover superare da solo i dubbi e le difficoltà della giovanissima età, senza una madre andata via di casa e con un padre che fatica a ritrovare la sua strada perché stretto nel dolore?
È questa l’idea che ha dato vita a “U Scantu”, il cortometraggio realizzato dal regista palmese Daniele Suraci, prodotto dalla Nardis Production, una giovane produzione abruzzese fondata da Gabriele Sabatino Nardis e Isabella Nardis, e sostenuto dalla Calabria Film Commission e dal Mibac.
Il trailer del cortometraggio, girato in autunno alla Tonnara di Palmi, è uscito nei giorni scorsi ed ha già suscitato grande interesse.
Abbiamo sentito il regista, Daniele Suraci, che ci ha così parlato del suo lavoro.
G: Cos’è “U Scantu” e da dove nasce l’idea di un corto girato alla Tonnara, con protagonisti del posto?
R: “U Scantu” è un cortometraggio che volevo realizzare da molto tempo. Nel nostro dialetto la parola “U Scantu” significa la paura ed è una emozione che ho declinato all’interno di un (non) rapporto tra padre e figlio. Un adolescente è impegnato a superare le proprie paure, attendendo il ritorno di un padre smarrito nel dolore dopo essere stato abbandonato dalla moglie. L’idea nasce dall’esigenza di voler raccontare una storia intima, con una forte tematica, in un territorio dai grandi contrasti. Il mondo interiore delle emozioni mi ha sempre affascinato perché è un mondo piccolo, fatto di piccole cose. Si manifesta attraverso sguardi, gesti e intenzioni, è poetico, magico e reale nello stesso tempo, proprio come il contesto dove si muove Saro (Giuseppe Romeo) il nostro protagonista. Saro è un adolescente che cerca di capire e codificare il mondo che lo circonda in totale solitudine, senza una guida che lo aiuti. Si barcamena tra le emozioni che spesso hanno la meglio su di lui. Un ritratto della solitudine che caratterizza i nostri tempi, che porta gli individui a chiudersi in se stessi, distraendoli dal mondo che li circonda e non riuscendo a vedere oltre, proprio come succede al padre del ragazzino. A interpretare questa figura è Fabrizio Ferracane, attore che stimo molto, generosissimo ad interpretare questo ruolo e a restituire la giusta drammaticità al personaggio del padre.
La paura, l’abbandono, il ritrovarsi e l’amore accarezzano il racconto sin dall’inizio, e di conseguenza questa piccola porzione di Calabria diventa la scenografia ideale del mondo interiore dei personaggi: la spiglosità del dolore è riconducibile agli appuntiti scogli che spuntano dal mare.
La Tonnara di Palmi mi sembrava l’unico luogo adatto per questa storia.
Questa terra conserva ancora il sapore dell’antico mito che in qualche maniera, volevo riportare all’interno della relazione: Saro, come Telemaco, scruta il mare nell’attesa del ritorno del padre.
L’intenzione è da sempre stata quella di voler raccontare una Calabria in cui l’amore sia possibile, sciolto dai lacci della paura e aperto a un orizzonte di speranza e bellezza.
In un contesto del genere non potevo che muovermi sul territorio per ricercare anche i piccoli attori protagonisti, è qui che ho scovato il resto della comitiva di “Saro”. Grazie all’aiuto di Lele Nucera (casting director) e della Nardis Production (la produzione del cortometraggio), dopo aver visionato circa centocinquanta ragazzini ho scelto Aurora Galimi, Loris Parrello e Vincenzo Amadeo (oltre al protagonista Giuseppe Romeo). Sono tutti ragazzini del posto, dalle grandi capacità, con i quali sin da subito sono riuscito a lavorare con grande empatia. Una delle cose che mi ha reso più felice in fase di casting è stata la numerosa risposta delle persone; questo suggerisce che il desiderio e l’intenzione di fare cinema in questa terra è vivo e palpitante.
G: Perché la scelta di un titolo dialettale?
R: La scelta del titolo dialettale è dovuta al tipo di storia che avevo in mente di raccontare. Una storia asciutta, fatta di sguardi, lunghi silenzi e piccoli contatti, il dialetto della nostra terra è duro e poetico come può esserlo una relazione tra padre e figlio.
Per me il ritorno al luogo delle origini con questa storia equivale al ritorno alla sua poesia, alla sua lingua, alle persone che lo popolano. Questo mi conforta perché recidere il legame con la propria terra significa lasciare sbiadire i ricordi di un’esistenza.
G: Quanto il cinema può aiutare la Calabria nel riscatto della sua immagine non sempre positiva?
R: Sicuramente è un grande aiuto. La bellezza del cinema è che si possono, oltre che raccontare, anche mostrare le storie, i volti, le tradizioni di un intero paese. A mio parere la Calabria, proprio perché terra difficile, ha molto da raccontare. Purtroppo, la maggior parte delle volte è stata usata come location per esaltarne il degrado e l’incapacità di crescita culturale, artistica e sociale, ma come in tutte le cose c’è anche il bello, ci sono luoghi che hanno un impatto visivo ed emotivo folgorante, ci sono i sogni di chi desidera riscattarsi, c’è il fascino dell’antico mito, che sembra riposare fra le scogliere della Costa Viola. Quindi sono convinto che il cinema, proprio per questa sua forza di riuscire a “mostrare”, può essere un mezzo attraverso il quale un territorio si racconta. Ci sono alcune regioni del sud Italia che grazie al cinema hanno risollevato le sorti sia territoriali, scoprendo storie, luoghi e tradizioni che sociali ed economiche. Il cineturismo in Puglia ne è un esempio lampante. Sembra che finalmente anche la Calabria sia entrata in quest’ottica. La Film Commission sta lavorando bene a riguardo, concedendo le possibilità a giovani autori di potersi esprimere nel migliore dei modi, facendo formazione e coinvolgendo le istituzioni del territorio.