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La Speranza e il Coraggio

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“…essere donna è così affascinante.
È un’avventura che richiede un tale coraggio,
una sfida che non annoia mai”.
Oriana Fallaci, da Lettera ad un bambino mai nato

Sentiamo ripetere che “la speranza ha due bellissimi figli: lo sdegno e il coraggio. Lo
sdegno per la realtà delle cose; il coraggio per cambiarle”. Quando adattiamo la massima
di Sant’Agostino alla vita quotidiana ci sdegniamo e ci ergiamo a giudici e giurie con
facilità e, a volte, anche senza una reale conoscenza di tutte le circostanze; ma non con
altrettanta determinazione ci armiamo di coraggio per operare il cambiamento ed essere noi
stessi cambiamento.
La realtà delle cose su cui soffermarsi sono “i fatti di Seminara”, metonimia, ormai
conosciuta, della brutale violenza di gruppo perpetrata ai danni di due, forse anche tre,

ragazze minorenni da parte di giovani seminaresi da gennaio 2022 a novembre 2023, il cui
numero è via via cresciuto nel corso delle indagini.
Lo sdegno irrompe amplificato, in seguito ad un programma televisivo, e conduce la società
civile e mediatica nelle piazze reali e virtuali, attonita, stordita, destata dal torpore, forse
anche avida d’informazioni, ma certamente incredula che tanta barbarie possa essersi
consumata, mentre ognuno dei suoi componenti le passava accanto.
È raccapricciante ascoltare i contenuti di quelle dichiarazioni; mostruose sono le immagini
che si compongono nelle menti man mano che i racconti della violenza prendono corpo;
terribile la sensazione di soffocamento che – sono sicura di questo – ha attanagliato
chiunque abbia visto quel reportage, uomo o donna, giovane o meno giovane.
È stata la personificazione dell’orrore, un autentico stupro collettivo che ha coinvolto gli
spettatori e, dispiace doverlo segnalare, una vittimizzazione di terzo livello, delle giovani
che quelle violenze le hanno subite davvero. E ininterrottamente per quasi due anni.
Chi è il colpevole? Chi, non per la magistratura, ma per il Tribunale del popolo?
È proprio il popolo civile che in questa realtà delle cose è chiamato ad interrogarsi e a
guardarsi dentro per comprendere, innanzitutto, quanta complicità abbia manifestato al
rinforzo di quell’atteggiamento culturale, così diffuso, che oscilla fra compiacimento e
noncuranza, ironia di bassa lega e mottetti di spirito, supponenza e arroganza.
E non c’è solo Seminara davanti al Tribunale delle coscienze, ma Palmi, la Piana, la Città
Metropolitana, la Calabria, l’Italia intera, tutto il Mondo.
Non è più la realtà di un piccolo centro della provincia di Reggio Calabria, ma un’epidemia
che sembra inarrestabile. E ricondurre la matrice dell’evento solo ad un mero
condizionamento ambientale di tipo mafioso, come è stato detto dai media, è fuorviante.
È, invece, una questione culturale.
Ogniqualvolta che una donna per strada è oggetto da parte di uomini di apprezzamenti non
richiesti, spesso volgari, di doppi sensi, di fischi (il cd. catcalling), non è lusinga, ma
molestia; ogniqualvolta un uomo, sbracciandosi dal finestrino della propria auto, fa il
pappagallo, come si usava dire un tempo, con una donna, solo perché egli presume di avere
il diritto di manifestarle il proprio appetito sessuale (ricordate l’“anvedi che panettone!” di
Carlo Verdone in Gallo Cedrone?), non compiace quella donna, la molesta; ogniqualvolta
che gli uomini fanno mansplaining – e cioè con toni paternalistici e presumendo di essere i
soli qualificati a farlo, spiegano alle donne concetti di cui le stesse donne sono più che
competenti – non la educano, ma ne sminuiscono il valore.
Sono atteggiamenti apparentemente innocui, ma profondamente pericolosi, perché
alimentano una violenza, che è ancora allo stato larvale, ma che è destinata a svilupparsi,
assumendo dimensioni incontenibili, destinati a sfociare in tragedia.
È pervasivo questo atteggiamento e, duole dirlo, anche profondamente radicato nella cultura
della società odierna. Affonda le sue radici nel mito: da Ade e Persefone a Dafne e Apollo;
da Pan e alle sue molteplici aggressioni violente alle ninfe Eco, Siringa e Selene; da
Poseidone e Medusa a Zeus, padre degli dei, campione di congiunzioni carnali adulterine,
estorte con violenza o captate con l’inganno.

E non è neanche troppo distante da quell’atteggiamento così diffuso nel nostro Sud, noto col
nome di gallismo, che Vitaliano Brancati ha rappresentato nella satirica descrizione affidata
alle pagine dei suoi Don Giovanni in Sicilia e Il bell’Antonio, romanzi da rileggere nelle
scuole, con occhi critici e più contemporanei, per comprendere che quei modelli patriarcali
sono inevitabilmente e definitivamente destinati all’estinzione. Nel nostro Sud e ovunque
nel mondo.
Quelle due ragazzine, le cui vicissitudini la cronaca giudiziaria ci ha consegnato, sono reali
e non personaggi del mito o della letteratura: sono al pari delle donne abusate e abbandonate
nel deserto che circonda Ciudad Juarez in Messico; sono al pari delle giovani studentesse
violentate e bruciate sugli autobus di Nuova Delhi; sono al pari delle vittime della barbarie
degli stupri delle ancóra più barbare guerre che lambiscono i nostri confini.
Siamo noi donne, corpi da profanare, il sesso inutile, come inutile è chiunque venga
considerato inferiore da chi ha fede nella propria superiorità e fa degradare al rango di
oggetto chi non reputa suo pari.
«Nessun uomo è un’isola, completo in se stesso… La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce,
perché io sono parte dell’umanità. E dunque non chiedere mai per chi suona la campana:
suona per te», così scrive John Donne e così dovrebbe sentirsi ognuno di noi ogniqualvolta
la società assiste alla caduta di uno dei suoi figli o delle sue figlie.
Occorre, dunque, invocare il coraggio per cambiare lo status quo: è una battaglia da
condurre armati di parole e di educazione; di esempi virtuosi e coraggiosi; di iniezioni di
cultura dell’accettazione e dell’incorporazione delle differenze. Per rimuovere la povertà
valoriale in cui siamo immersi, per riemergere dalle paludi dell’immaturità del sentire, per
bonificare le falle del regresso che trattengono la società tutta alla preistoria della civiltà.
Un “no” non è sinonimo di forse, vorrei, prova a convincermi o puoi convincermi; non è
un’incitazione alla conquista. No è “non voglio”!
E gli uomini, giovani e meno giovani, compagni di vita o amici, conoscenti occasionali o
fortuiti, devono imparare a rispettare quei dinieghi e coloro che lo pronunciano; devono
essere ammaestrati ad elaborare il rifiuto non come l’accettazione di una sconfitta, ma anche
come l’occasione per costruire rapporti di natura differente, come amicizia o complicità;
devono, infine, assecondare le richieste di allontanamento e cominciare a fare i conti con le
proprie ossessioni e pulsioni e chiedere supporti specializzati, se incapaci di farlo in modo
autonomo.
Giovani fiori violati, siate oggi come Gisèle Pélicot, la settantunenne francese che ha con
coraggio denunciato l’ex marito per i dieci anni in cui è stata drogata e violentata in stato di
incoscienza da decine di uomini; siate come Franca Rame, che con coraggio ha trasformato
lo stupro subito in quello struggente monologo che è terapia e denuncia al tempo stesso;
siate come Nadia Murad Basee, attivista per i diritti umani di origine yazida, coraggiosa
sopravvissuta alla schiavitù e alle violenze sessuali dell’ISIS e Premio Nobel per la Pace nel
2018, per gli “sforzi volti a mettere fine all’uso della violenza sessuale come arma di guerra
e conflitto armato”.

Sia la società tutta, senza confini geografici e senza ruoli, consapevole che nella terra dei
diritti, occorre avere il dovere d’indignarsi e d’impegnarsi, perché, “se dobbiamo vivere nei
tempi oscuri, allora dobbiamo parlare dei tempi oscuri”, esortava Brecht.
Perché il male è semplicemente banale, ma se vogliamo nutrire ancora una speranza di
cambiamento, dobbiamo noi stessi essere semplicemente cambiamento.

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