(Filmato e sonoro d’epoca di Antonio e Vincenzo Orso)
Tra grandi illusioni e mancate promesse
La necessità era quella di dover dare una risposta forte alla Calabria, dopo la Rivolta di Reggio del ’70.
“Il Pacchetto Colombo”, infatti, prevedeva, tra l’altro, la realizzazione del grande porto di Gioia Tauro, infrastruttura essenziale per il V Centro siderurgico.
«Un porto – dirà anni dopo il noto economista Marco Vitale – costruito in maniera eccellente, in un punto strategico del Mediterraneo».
Ma a proposito dell’impianto siderurgico, già taluni dirigenti dell’industria di Stato furono del parere che l’opera, perlomeno in quel momento, non si potesse realizzare, a causa della crisi della siderurgia. Anche una certa parte della politica, locale e nazionale, ebbe molti dubbi sulle promesse del Governo, mentre un’altra parte di essa rifiutava nettamente la scelta dell’industrializzazione, sostenendo, invece, che la vera vocazione di questo territorio risiedeva nell’agricoltura e nel turismo, per cui era da qui che doveva partire un progetto di sviluppo. Una tesi, questa, perorata soprattutto dalla Destra, con in testa l’allora segretario del Movimento Sociale Italiano, Giorgio Almirante, che fu tra quelli a parlare, sin da subito, di beffa e di tradimento.
In molti, però, pur tra tante diffidenze – specialmente fra le forze della Sinistra – prevalse la suggestione dei 7.500 posti di lavoro che avrebbe garantito il megainsediamento.
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Posa della prima pietra: Andreotti a Gioia Tauro
Si arrivò, quindi, alla storica giornata del 25 aprile del 1975, data fissata per la cerimonia della prima pietra.
«E’ il giorno della Liberazione – scrive l’ex presidente della Commissione antimafia, Francesco Forgione, nel suo libro “Porto franco” – Invece che partecipare a una cerimonia in una delle tante città simbolo della Resistenza e della lotta partigiana, il ministro Giulio Andreotti decide di scendere in Calabria, a Gioia Tauro. L’occasione è davvero storica – racconta l’autore – e merita anche la solennità della data. Quel momento era atteso come un sogno irraggiungibile dalle migliaia e migliaia di persone della Piana, che ancora non si erano rassegnate ad abbandonare la famiglia, fare le valigie e andare al Nord. […] Andreotti arrivava, come un messia, per annunciare un’altra novella: basta valigie di cartone e nottate sulla Freccia del Sud o sul Treno del sole per andare a cercare lavoro.[…] Ora, finalmente, il lavoro arriva in Calabria e il sogno della fabbrica diventa realtà».
Le cronache dell’epoca sono ampie e riportano, ovviamente, anche i sentimenti del sindaco di allora, Vincenzo Gentile. In un’intervista rilasciata per l’occasione al quotidiano Gazzetta del Sud, il primo cittadino di Gioia Tauro dichiara: «La posa della prima pietra esprime l’esigenza profonda delle nostre genti di vedere finalmente posta la parola fine al malessere di cui è colpita endemicamente la Calabria, un malessere che porta i nomi di miseria, emigrazione, disoccupazione, sottoccupazione».
«La mafia non è menzionata – osserva Forgione nel suo volume – non compare tra i nomi dei malesseri calabresi. La mafia non esiste. Eppure, fino a quel momento, gli unici a beneficiare del sogno produttivo della Calabria erano stati soltanto loro, i boss della ‘ndrangheta e le loro cosche».
Il coffee break all’Euromotel
In relazione alla venuta di Andreotti a Gioia, nella fattispecie ai suoi spostamenti in città, è sempre Forgione a riferire di quel «fuoriprogramma», oltre ad altre fonti che si soffermano sulla stessa circostanza, cioè su quel caffè consumato all’Euromotel. «Qui niente avviene per caso. Serve a far sapere dove e con chi avviene il primo contatto del ministro nella Piana. Bar, grazie a Dio, a Gioia non ne mancano. Ce ne sono davvero tanti. Chissà perché, però, il migliore caffè della zona – dice Forgione – è quello dell’Euromotel, lo storico hotel della famiglia Piromalli. Proprio quello che – chi poteva immaginarlo? – dopo vent’anni verrà confiscato e consegnato al Comune. Naturalmente – continua – per un ospite di riguardo, il barista non può che essere d’eccezione. A fare gli onori di casa, porgere la tazzina di caffè e offrire le pastarelle, ci pensa Gioacchino Piromalli. E’ il nipote prediletto di don Mommo, il patriarca – scrive l’ex presidente dell’Antimafia – e di don Peppino, suo fratello, i capi del clan che, proprio a Gioacchino, hanno assegnato il compito di organizzare la spartizione dei lavori e degli appalti per gli sbancamenti». Sempre a questo proposito, appare interessante evidenziare che anche Aldo Alessio e Santo Manucra – nel libro “Marinai in lotta” – richiamano l’attenzione su tale episodio. «L’On. Andreotti, dopo i convenevoli, fu accompagnato dagli esponenti locali del suo partito all’Euromotel, dove bevve il famoso “caffè” assieme a Gioacchino Piromalli. La simbologia di quel gesto fu chiara – affermano gli autori – e così a Gioia Tauro proseguì la “Pax mafiosa”. La ‘ndrangheta aveva già tutti i suoi potenti tentacoli sin dall’inizio della costruzione del porto, senza averne mai lasciato la presa». Finita la “festa”, seguirono anni e anni di battaglie, di cortei, di scioperi, di mobilitazione dei sindaci pianigiani, di manifestazioni di protesta – in una di queste ci fu anche un memorabile intervento di Luciano Lama – per le disattese promesse, per l’inganno, per la beffa, mentre in una delle tante occasioni la prima pietra fu restituita al mittente, a Roma.
La Centrale a carbone
Sfumata, dunque, la costruzione del V Centro, viene proposta una serie di alternative. Ricostruendo i fatti di quel periodo, il libro “Gioja Tauro – Vicende storiche da Metauros ad oggi”, edito da Ausonia e scritto nel 1995 da Pietro P. Vissicchio, riferisce alcune importanti notizie. «Allora ecco che si parla della costruzione di un laminatoio a freddo della Finsider, di un’industria di armi di precisione della Oto-Breda, della messa in opera di un cantiere navale (la Smeb di Messina) e, in ultimo, una centrale elettrica alimentata a carbone», scrive Vissicchio. «Già l’otto giugno del 1982 il Consiglio comunale di Gioia Tauro, con quello di San Ferdinando, si era espresso favorevolmente all’insediamento degli impianti Enel. […] I tempi di costruzione erano previsti in dieci anni, con un’occupazione di 1.800 addetti. A lavori ultimati, i posti sarebbero stati da 360 a 400». Ottenuta qualche anno dopo l’autorizzazione del Ministero dell’Industria, quasi subito «l’Enel modificò – evidenzia l’autore – il progetto iniziale, prevedendo il funzionamento policombustibile».
Il voltafaccia dell’Enel
L’atmosfera creatasi in quegli anni nella Piana, dopo le promesse non mantenute, mette in seria discussione la credibilità delle Istituzioni. In alcune pagine del libro “Marinai in lotta”, di Aldo Alessio e Santo Manucra, pubblicato da Taurografiche, vengono sottolineate le forti preoccupazioni di quel momento. «Non ci siamo mai innamorati – scrivono – della Centrale, ma sicuramente il voltafaccia dell’Enel inserisce un grave elemento di instabilità sociale ai danni della Calabria e della Piana. Il Governo nazionale e la Giunta regionale per essere nuovamente credibili – asseriscono Alessio e Manucra – dovranno impegnarsi ed evitare così che si consumi l’ennesima beffa su Gioia Tauro. Come si può vincere la mafia se le Istituzioni non sono in grado di dare un segnale forte di coerenza e di esistenza? Se le Istituzioni non sono in grado di dare risposte certe ed immediate al dramma della disoccupazione? Una ricaduta verticale di credibilità delle Istituzioni avrà un effetto destabilizzante e darà nuovo ossigeno a quell’antistato che noi tutti vogliamo combattere. Dobbiamo però capirci – sottolineano – perché su questo territorio la posta è alta. Se continuerà ad esserci una perdita di credibilità delle Istituzioni, alla fine, per riflesso anche il Sindacato, che ancor oggi è un punto di riferimento certo, rischierà di non essere più credibile agli occhi dei lavoratori e dei disoccupati e, così facendo, non si rafforza il tessuto democratico nel territorio».
L’intervento della Magistratura
Nelle tensioni di quel periodo irrompe la Magistratura. Anche su questo argomento il volume di Vissicchio riporta, dettagliatamente, i fatti dell’epoca. «I lavori per il pre-cantiere vennero interrotti la mattina del 19 luglio del 1990, allorquando tutta l’area venne posta sotto sequestro dalla Procura della Repubblica di Palmi. Il provvedimento – prosegue – elencava ben tredici ipotesi di reato, che coinvolgevano il Consiglio di Amministrazione dell’Enel: dalla violazione delle norme urbanistiche e dell’ambiente, alla turbativa d’asta e delle norme sugli appalti. Il giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale, Elena Massucco, accolse la richiesta del procuratore, Agostino Cordova, e del suo sostituto, Neri, per evitare la prosecuzione dei reati. I carabinieri apposero i sigilli agli uffici presenti: quelli dell’Italstrade del gruppo IRI-Italstat, la Gambogi del gruppo Ferruzzi, la C.C.C., Consorzio cooperative costruzioni, con l’accusa di associazione mafiosa. Ad agosto il Tribunale della Libertà di Reggio Calabria confermò il provvedimento della Magistratura. Il successivo 12 novembre – riporta ancora il libro – la I sezione della Corte di Cassazione, presieduta dal giudice Carnevale, annullava senza rinvio il sequestro dei cantieri. Si poteva, quindi, ricominciare. Vi fu allora un accordo con il Governo per riaprire i cantieri entro il 1991 ma non accadde nulla. Anzi, nell’ottobre di quell’anno esplose la rabbia dei 530 lavoratori, che ridussero Gioia Tauro ad un vero e proprio campo di battaglia, con azioni da guerriglia urbana, che provocarono ingentissimi danni alla sede municipale, alla ferrovia, ad alcuni istituti di credito nonché alla stazione delle autolinee. Anche questa volta il Governo propose un nuovo accordo: i lavoratori avrebbero ricevuto la cassa integrazione fino alla ripresa dei lavori, mentre il Ministro dell’Industria avrebbe presentato al Consiglio dei Ministri un provvedimento per la riapertura immediata dei cantieri. Nel marzo del 1993 il Governo Amato confermava la realizzazione dell’impianto (a metano), ma a maggio il nuovo Governo, presieduto da Ciampi, cancellava definitivamente l’articolo del decreto Amato. Ancora una promessa mancata. Il 29 settembre 1993 veniva raggiunta una nuova intesa con i rappresentanti del Governo, Enel, Regione e Sindacati. La Centrale veniva ridotta nella taglia, da quattro a due gruppi policombustibili da 660 megawatt ciascuno ed i lavori sarebbero dovuti iniziare non più tardi di sette mesi, impiegando per cinque anni una forza lavoro di 1.800 unità, fino a ridursi a 400 a lavori ultimati. Risultato? Il Governo Berlusconi decise lo smantellamento anche dei pre-cantieri». Terminava così una vicenda molto complessa, che nella Piana provocò forti spaccature tra le forze politiche e un dibattito accesissimo anche nell’opinione pubblica.
L’intuizione di Ravano
Svanita pure la realizzazione della Centrale, ecco affacciarsi un inaspettato protagonista, che segnerà il futuro del grande porto. «La “scoperta” del porto di Gioia da parte di Angelo Ravano, allora presidente del gruppo tedesco-genovese Contship, con sede a Londra – scrive Osvaldo Pieroni nel poderoso libro “Gioia Tauro – Storia-Cultura-Economia”, pubblicato nel 2004 da Rubbettino – lo portò a descrivere, nel 1993, l’immensa banchina come la più bella d’Europa dopo Rotterdam e ad immaginare quello sviluppo del transhipment che poi si è realizzato». Lo sviluppo non sarebbe potuto avvenire «senza quella stagione di lotte che, partita da un piccolo gruppo di ambientalisti e di cittadini della Piana, fu in grado di superare le contraddizioni e, infine, di coinvolgere in massa abitanti e Istituzioni locali. […] Nel giro di tre mesi – si legge ancora nello stesso capitolo – un protocollo di intesa per lo sviluppo di iniziative nel porto viene siglato dalla presidenza del Consiglio dei ministri, i ministri del Bilancio, della Marina mercantile e dei Lavori pubblici e la Contship. E’ il 2 dicembre 1993. Prende così l’avvio la concessione per un periodo di 50 anni. Gli investimenti per le infrastrutture necessarie al funzionamento del grande terminal container – riporta il volume della Rubbettino – saranno per 132 miliardi a carico dell’intervento pubblico e per 280 miliardi (di cui circa 80 finanziati dalla Cee) della società privata. La Contship costituisce una apposita società per la gestione del porto – la Medcenter containar terminal (Mct) – ed appena un anno dopo il folgorante innamoramento di Ravano viene stipulato l’Accordo di programma tra il ministro del Bilancio, il ministro dei Trasporti, la Regione Calabria e la Medcenter. I lavori a carico dello Stato sono affidati alla Regione e, per questa, all’Asi, che ha ricevuto, inoltre, un finanziamento per la realizzazione di un’area industriale di sviluppo contermine al porto. Ed abbattendo anche i tempi previsti – rileva Pieroni – per l’entrata in funzione del terminal, il 16 settembre 1995 fa il suo ingresso nel porto e attracca alla banchina la nave belga “Concord” della Cmbt: 18.000 tonnellate di stazza e una capacità di carico di 1.800 containers. Le due uniche gru operative agganciano e depositano a terra i primi 150 containers, che prenderanno la via del Golfo Persico e dell’India». Da quella data sono trascorsi quasi ventidue anni, nel corso dei quali non sono mai cessate le ansie e le preoccupazioni, così come stanno dimostrando le vicende di questi giorni dei lavoratori portuali.
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L’editoriale di Nicola Orso