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Ippolito, un mito perpetuo. Svelato il mistero di un antico rito

di Pino Sciarrone*

Caro Inquieto, sono finalmente riuscito a inviarti il testo integrale sul “Mito di Ippolito”,pubblicato su “Calabria Sconosciuta”.

Nel frattempo mi sono imbattuto sul puntuale commento di Modafferi (leggi articolo), relativo alla protome leonina che fa parte dei reperti rinvenuti da Paolo Orsi a Monacelli (solo i frammenti 4 e 5 della fig.III- relativi ai cavalli che ho definito spaventati e imbizzarriti – derivano da S. Maria,a ponente della stazione).

Lo scritto di Modafferi mi ha emozionato anche perché ho rivisto immagini e ho letto nomi a me cari come quello di Visalli il cui fratello riposa presso il nostro cimitero.

Spero che proprio tu, caro Inquieto, promuova un bel simposio che ci consenta di appropriarci di una memoria storica e di una dignità che, di fatto, non abbiamo mai perso!

Anch’io sto cercando un contatto col museo metropolitano di New York.

Ippolito: un mito perpetuo.

Svelato il mistero di un antico rito

Pino Sciarrone
Pino Sciarrone

A Gioia Tauro, antica Metauros, si venera Sant’Ippolito. Il santo, che secondo la tradizione cattolica più accreditata, fu un vescovo erudito vissuto a Roma nel III sec. d.C. L’icona gioiese lo rappresenta come un soldato a cavallo in netto contrasto con tutte le altre immagini i cui unici attributi sono il libro e la palma (cultura e saggezza). Fu antipapa di San Ponziano prima che l’imperatore Massimino obbligasse l’uno e l’altro ai lavori forzati nelle miniere della Sardegna; pare, secondo improbabili e contrastanti versioni, che la sofferenza li avesse indotti ad una sorta di sodalizio sfociato nella conciliazione prima che li cogliesse la morte. Leggendo Prudenzio (Sulle corone, XI,77-122) si ha un’idea più coreografica e “passionale” della morte di Ippolito. L’autore, con dovizia di particolari, imbastisce un racconto degno di un fantastico narratore: “…il giudice gli domandò: Come ti chiami? Ippolito, rispose. Che sia dunque Ippolito legato a dei cavalli e che muoia lacerato da questi”. Le sue ultime parole, prima di morire, sarebbero state: “aggiogano il mio corpo; tu, Cristo, aggioga la mia anima!”. Segue la descrizione di una forsennata corsa di cavalli imbizzarriti che trascinano il povero Ippolito per monti e per valli attraverso inestricabili foreste “sperdendo” qua e là brandelli di carne e fiotti di sangue, fino al momento in cui Ponziano viene “introdotto sulla scena” (dallo stesso Prudenzio) per raccogliere i resti di quell’inesorabile martirio. Prudenzio dichiarerà dopo che per il racconto si era ispirato all’affresco di una chiesa. Jean Leclercq ritiene che si debba prendere in considerazione la lapalissiana ipotesi che le immagini dell’opera pittorica non fossero quelle relative alla morte del mitico figlio di Teseo (reo, come tutti sanno, di un imperdonabile torto nei confronti di Afrodite giacché aveva scelto di vivere “libero e vergine”, sì da indurre la dea ad infondere, nella psiche della matrigna Fedra, un’indomita passione amorosa per il figlio del proprio amante Teseo). In verità, già qualche secolo fa, il grande illuminista francese Voltaire ebbe a dire: ”Vi è poi un S. Ippolito che si dice sia stato trascinato dai cavalli come il figlio di Teseo. Questo supplizio non fu mai conosciuto dagli antichi Romani e la sola somiglianza del nome ha fatto inventare questa favola”. È ben nota la trama della tragedia di Euripide, della lezione di Seneca e ancora, delle Metamorfosi di Ovidio: Teseo, infuriato col figlio a causa delle mendaci parole di Fedra invoca Poseidone che dalle onde del mare fa uscire un mostruoso toro infuriato nel momento in cui Ippolito percorre con la sua quadriga il litorale di Trezene, quindi la tragica morte di lui, imbrigliato e trascinato dai suoi cavalli imbizzarriti.

È significativo che la diatriba fra le due divinità, Afrodite da una parte e Artemide dall’altra, non finirà con la “sconfitta” di quest’ultima che pareggia il conto riportando il suo devoto Ippolito a nuova vita grazie all’aiuto del taumaturgo Asclepio: il suo nuovo nome sarà Virbio (due volte uomo) e, al fine di distrarre la gelosia degli “avversari”, non sarà più un giovane ma un senior barbuto e canuto affidato alla ninfa Egeria alla quale venivano dedicati i sacrifici delle donne prima del parto in perfetta sintonia col culto di Ifigenia. Le vicende si svolgono nel Lazio, a debita distanza dai tragici litorali del golfo di Trezene, città dell’Argolide, prospiciente all’isola di Calauria (anche Metauros è sita in un golfo e davanti ad essa fuma lo Stromboli). La nuova città di Virbio sarà Aricia, sede di un tempio dedicato alla “sua” Artemide e fondato dallo stesso Oreste (secondo Strabone il simulacro della dea era una riproduzione sacra – aphidryma – di quello della Artemide Tauropola). In un tempo successivo, Artemide diverrà la Diana Nemorense. È evidente il legame mitico fra Oreste e Ippolito, consolidato, grazie a Stesicoro (vedi il mito di Elena) dalla loro fratellanza con Ifigenia, sacerdotessa di Artemide, divinità di Oreste e protettrice di Ippolito . Altrettanto evidente è l’indovazione di quest’alea mitica sulle sponde del Metauro. Infatti, come ad Aricia ogni 13 di agosto una moltitudine di schiavi accorreva presso il tempio per venerare la Diana Nemorense e lo stesso Ippolito (era quella la famosa “festa degli schiavi), ancora oggi il 13 di Agosto a Gioia Tauro si venera S.Ippolito e anche a Corfinio in Abruzzo (non lontano da Aricia), nella stessa data ha luogo un pellegrinaggio proprio laddove recenti scavi hanno riportato alla luce un tempio del IV-III sec a.C.

Di cavalieri in perfetta simbiosi col proprio cavallo nella mitica terra della “Magna Grecia” ce ne sono stati tanti. Mi fa riflettere, considerato il nesso storico tra Metauros e Tauroentum, il santo di Taureana, egli stesso di nome e di fatto è legato al suo cavallo. Uno scudo votivo da Medma, mirabilmente studiato dall’attento Settis, rappresenta un altro cavaliere, Bellerofonte, a cavallo di Pegaso, il cui secondo nome Ipponoo appare in perfetta sintonia con tutto il resto. Anch’egli infatti, ingiustamente accusato di “aver mancato di rispetto” alla donna che lo aveva sempre desiderato, morirà cadendo dal suo cavallo alato, imbizzarrito per il morso di un tafano, mandato da Zeus per ripicca. D’altra parte il fumus di mille leggende eoliche non poteva non essere avvertito in queste nostre contrade continuamente invase dai coloni dell’Eubea, della Calcide o dell’Arcadia dove il mito di Oreste era ben radicato e il nome di Ippolito altrettanto “gettonato”, del resto quante innumerevoli contrade del sud Italia sono denominate col mitico eponimo di Ippolito? Cosa c’entrano le nostre contrade con un vescovo romano del III secolo dopo Cristo? Io da buon “Metaurino” non posso non citare la lezione di Stesicoro sul mito di Oreste: l’inquieto Teseo, “anticipando” Menelao, aveva rapito Elena e da lei aveva avuto Ifigenia che, ancor prima di divenire sacerdotessa di Artemide (Artemide!), si trovò simultaneamente nel ruolo di sorella di Ippolito e dello stesso Oreste che, dopo il matricidio, per sfuggire alle Erinni e ai suoi rimorsi si immerse nelle acque del nostro mitico fiume dai sette affluenti, il Metauros (idronimo della vicina città), citato da Plinio il Vecchio e da Strabone.

È vero che Metauros è una colonia calcidese, opportuna testa di ponte con la vicina Zancle; ma ciò non significa che solo i Calcidesi o gli Zanclei siano stati gli unici colonizzatori. Trezene è una città di mare posta lungo le rotte dei naviganti e la storia, si sa, non si svolge nell’estemporaneità di un fotogramma né la precedenza di un processo di colonizzazione può escludere componenti successive o alternative. Gli abitanti di Trezene sono giunti fino a noi e con loro il loro mito. E da Probo che cita Catone sappiamo che gli ateniesi identificavano i Theseunti con i Tauriani (ma Teseo…non è il padre di Ippolito!?), e ancora Plinio ci parla di Porto Oreste presso una città detta Tauroentum vicino al fiume Metauro, nei pressi della città di Stesicoro.

Come qualcuno asserisce, però, è più facile fare un santo che provare un mito!

E per questo, perorando la mia causa, prima di procedere, voglio premettere che i reperti archeologici, ovvero i cosiddetti monumenti, hanno sempre un significato di verità e sacralità; un corredo tombale non è mai casuale, esso ci parla con precisione del defunto e della sua misticità ed ha un intimo nesso con l’aldilà. Dagli scavi della necropoli di Metauros sono venute alla luce due belle anfore di fattura calcidese; su una è dipinto un giovane cavaliere a torso nudo che galoppa seguìto da un cane da caccia, sull’altra ancora una volta è dipinto un uomo a cavallo senza elmo né corazza; ambedue i vasi si trovano, oggi, nel museo di Reggio Calabria. Nel museo di Gioia, all’interno di una teca che espone esclusivamente un unico corredo tombale, è possibile ammirare un vaso del V secolo che offre sul lato A una composta quadriga e sul lato B ancora una quadriga la cui immagine, molto deteriorata, è disarmonica rispetto alla prima: ci sono anche una miniatura forgiata in bronzo e ferro di un cocchio da quadriga e, dulcis in fundo, la testa di un toro in bronzo! cosa manca per affermare il mito di Ippolito? Sempre all’interno della stessa teca, come se fosse un reperto casuale (come già detto in un corredo tombale nulla è casuale!) vi è una piccola fusione in bronzo nella forma di un doppio cerchio (come il numero 8 in orizzontale); per i popoli dell’antichità(come i Celti, gli Ausoni e gli Italici ) è il simbolo del serpente che si morde la coda a significare la conoscenza nascosta e segreta ( vive lungamente sottoterra), l’infinito (ancora oggi ne è il simbolo) e il rinnovamento ( il serpente cambia la sua pelle ogni anno). È, inoltre, l’attributo escatologico della dea… di Ippolito… Artemide (Ekate). Tutto ciò, secondo i vari punti di vista, potrebbe essere poco per dimostrare l’antico culto ed è per questo che voglio riportare fedelmente uno scritto (e i relativi disegni) del grande Paolo Orsi, conseguente ad alcune scoperte archeologiche gioiesi.

” …Le immagini che qui aggiungo (fig.2), per quanto non troppo chiare, mostrano trattarsi di arcaiche terrecotte architettoniche, che alludono nettamente a qualche tempio o santuario dell’antica Metauros. A miglior intelligenza gioverà qualche breve descrizione dei pezzi principali.

Num.1 Pezzo intero di cornice lungo circa cm. 60 decorata nello sguscio di un kiumation dorico, a foglie rosse e brune, conterminate da un rilievo a funicella in basso, e da una scacchiera nella parte superiore dove attaccava il sima. La parte posteriore è incavata a doccia, per ricevere le acque defluenti. Num.2,3,5,8. Frammenti di cornice più piccola, con disegni a tre colori; il pezzo 5 appartiene al sima con scacchi bianchi e neri, il 3 al kiumation con foglie a flabello di colori alternati.

Num. 7. Dodici pezzi di canali da gronda.

Fig.3. Num.2. Mascera animale per bocca di gronda.

Num. 3. Frammento di mascherone umano, con avanzi di velatura bianca, ciglia, sopraciglia e pupille nere.

Num.4 frammento di piastra ad altorilievo, forse di piccola metopa, con due cavalli di una quadriga in prospetto; sopra il cavallo di destra si vede il braccio dell’auriga. Da ricordare la metopa selinuntina (Benndorf, tav. III) coi cavalli tutti in prospetto, e qualche rappresentanza vascolare dello stile nero rigido, coi cavalli pure di fronte, ed uno che scarta di fianco.

Num.5. Frammento del retrocorpo di altro cavallo.

Num.6. Testa di serpente.

Num.7. Frammento di cassetta od arula, con parte superiore di figura di sfinge.

Num. 8. Volute.

Tutti i frammenti architettonici hanno dei fori per fissarli, mediante perni o chiodi metallici, alla travatura; anzi molti chiodi di rame e parecchi di ferro vennero raccolti in mezzo ai rottami, e taluno ancora infisso nei fori; dell’edificio invece veruna traccia.

A nessuno sfuggirà il significato di codeste terrecotte, pertinenti ad un tempio o santuario, che non si dovrebbe cercare troppo lunghe da quel sito. Indipendentemente dalla possibile scoperta di esso, le terrecotte sono sempre un ulteriore contributo alla studio delle costruzioni sacre in legno della Magna Grecia e della loro decorazione fittile. Il materiale che io ho qui descritto e figurato in modo al tutto insufficiente, merita venir ripreso da capo, tanto più, se scavi sistematici metteranno fuori altri e più ragguardevoli pezzi. Io devo star pago di aver segnalata una significante scoperta, perché, da chi di dovere, si provvederà alla esplorazione di un sito così promettente”.

I resti architettonici puntualmente descritti e disegnati dall’Orsi oggi si trovano al “Metropolitan Museum” di New York e a mio avviso hanno il fascino e la magia di un’importante missiva da lungo tempo inviata ai posteri e non ancora pervenuta al destinatario.

Non c’è motivo di dubitare del grande archeologo che dice testualmente: “Tutti i pezzi architettonici hanno fori per fissarli mediante perni o chiodi alla travatura… (e sono)…pertinenti ad un tempio o santuario, (sic!)

Ma cosa raffigurano questi “monumenti”in terracotta?

Paolo Orsi, chiaro e distaccato, come si conviene ad un archeologo provetto, non poteva avere la frenesia che oggi pervade me, e scrive anche: ”Da ricordare la metopa selinuntina coi cavalli tutti in prospetto, e qualche rappresentazione vascolare dello stile nero rigido, coi cavalli pure di fronte, ed uno che scarta di lato”.

La metopa di Selinunte rappresenta una quadriga sul cui carro in posizione “centrale” è posta una divina auriga, Demetra con accanto la figlia Kore; i due cavalli centrali sono allineati e composti, i laterali, simmetrici e speculari, rampano all’interno in assoluta armonia con la scena che rappresentano e in perfetta sintonia con lo stile arcaico. I nostri reperti, verisimilmente frammenti di una metopa (o di una corposa arula, il che nulla toglie alla tesi) non sono arcaici e risalgono al 530 a.C.; la modellazione coroplastica non ha la raffinatezza propria dello stile classico, pertanto appare essere il prodotto di una ergasteria locale.

Ho voluto passare in rassegna tutte le quadrighe che nella storia siano state rappresentate, nello stile arcaico, classico ed ellenistico, in bassorilievi ed altorilievi fittili e non, nelle molteplici pitture vascolari, nelle sculture e nella monetazione.

Ho visto volitivi cavalli al galoppo, o improvvisamente frenati dal morso, o in posa da parata, o pronti per la partenza di un dio, solo o accompagnato; ho ammirato cavalli guidati da un competente auriga, cavalli attenti o distratti, in linea o sfasati, simmetrici o divergenti, armonici o in disordine.

Ma i cavalli della metopa metaurina sono “al di fuori della mandria”, si sono fermati all’improvviso non perché frenati dallo strappo dell’auriga ma perché atterriti da una visione mostruosa, sono terrorizzati e come abbagliati da una medusa, sottraggono lo sguardo, l’uno scartando a destra e impennando , l’altro rincagnando la testa sul collo e con gli occhi rivolti verso il basso, l’altro ancora (quello di cui rimane il “retrocorpo”) diverge decisamente in lateralità; del quarto equino non ci è pervenuto nulla. Ma la mano che stringe le contorte redini nel vano tentativo di ricomporre la quadriga, quella mano che ben si nota sopra il dorso del cavallo a destra, quell’inutile mano che presto si arrenderà al fato, è la mano di Ippolito.

Bibliografia

Coppola Alessandra, Archailoghia e Propaganda. I greci, Roma e l’Italia, L’Erma di Bretschneider, 1996

Letta Cesare, “I legami tra i popoli italici nelle ‘Origines’ di Catone tra consapevolezza etnica e ideologia”, in G. URSO (a cura di), Patria diversis gentibus una? Unità politica e identità etniche nell’Italia antica, ETS, Pisa, 2008

Orsi Paolo, XVI,GIOIA TAURO (Metaurum)-Scoperte vari

Settis Salvatore, Storia della Calabria antica. Età italica e romana, Gangemi Editore, Roma, 1997

* Medico

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